VOLANTINI

VOLANTINO #5, “Considerazioni indiscrete sul volto” di Andrea Fogli , 19 marzo 2022

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Riportare al centro dell’attenzione l’essere vivente. Ad incominciare dai piedi sporchi del pellegrino in primo piano su un altare del ‘600 alla Marina Abramovic che ti fissa immobile e muta al Moma di New York. Il volto ideale di dei, madonne, cristi e santi, cede il passo e al suo posto subentra il volto reale, la bruta realtà, l’orizzonte delle cose comuni. Questo sembra essere stato il programma sia delle Neo Avanguardie Caravaggesche di Kounellis & C. che  delle principali correnti artistiche che dalla Pop Art in poi hanno in vario modo deificato la realtà quotidiana, anche se spesso solo attraverso il suo duplicato mediatico.

C’è però qualcosa che non torna.

Le Neo Avanguardie Caravaggesche, concettuali, poveriste e minimaliste – come i loro epigoni contemporanei – hanno infatti affidato la raffigurazione dell’essere umano  esclusivamente al calco e alla fotografia, o direttamente al corpo vivo che anima le performance, ovvero a meccanismi cosiddetti di “presentazione” più che di “rappresentazione”. A questo punto una domanda chiave sorge spontanea, anche se quasi tutti cercano di rimuoverla : perché i nostri puri “Caravaggeschi” contemporanei, tra cui stimati grandi artisti, hanno ritenuto non necessario, o addirittura impossibile (storicamente), l’atto di dipingere o modellare un volto? Perché il cavallo deve essere vivo e non raffigurato? Perché, anziché dipingerlo, l’oggetto deve essere “live” o unicamente fotografato?

Forse perché nonostante i proclami “rivoluzionari” e lodevole intenzione di riportare al centro l’orizzonte terrestre al di là di ogni deriva metafisica o religiosa,  si è seguita la logica e i dettami di una società di massa che non distingue gli esseri umani da beni di consumo che lo circondano. L’apologia dell’oggetto e della materia tout court, come l’appiattimento Pop dell’immagine dell’uomo al suo duplicato mediatico, ha infatti reificato e spersonalizzato soprattutto l’essere umano, azzerando la sua dimensione immaginativa, psichica e spirituale: di questo si  erano accorti persino i nostri cari “neo caravaggeschi” che con Fabro negli anni ’90 hanno esclamato “arte torna arte”, senza peraltro riuscire a cogliere come detto il centro del problema.

La logica in cui, anche inconsapevolmente, è imprigionata l’arte attuale, è espressa chiaramente dal medium che oggi pervade la vita di ognuno, la fotografia, e in particolare dal suo uso o consumo distratto e vorace: l’immagine fotografica – anche con un selfie – è infatti sempre rubata ad un vivo da un “morto”, da un essere che vive accumulando o “postando” immagini che via via scivolano nell’indifferenza – un pissoir più che una fontana, con buona pace di Marcel Duchamp.

Al contrario quello che ritengo estremamente urgente oggi è la rinascita di una prassi ancestrale e classica dell’arte: donare ai vivi (e ai morti) un’immagine vivente, un volto che non sia come quello fotografico un frammento del reale, con il suo nome e la sua carta di identità, ma un’immagine eletta e senza nome, un qualcosa che io e te, mettendoci tra parentesi, possiamo riconoscere come “terzo” a tutti comune, come uno sguardo che oltrepassa la nostra mortalità.

Ed è qui il punto cruciale. Cavalli vivi, oggetti “live”, come l’impressionante attività catalogatoria della fotografia (prassi quotidiana dominante nel web), rappresentano di fatto la resa ad un orizzonte materialistico, effimero pur se scientificamente “oggettivo”, in cui l’anima (o se preferite, la profonda dimensione psichica dell’uomo) è stata estromessa. E con lei anche ogni anelito alla libertà, sia sociale che personale: anelito che è sempre il segno di una differenza, di una frizione non solo tra l’umano e il contesto in cui abita, ma tra ciò che vive dentro di noi e il destino mortale e corporeo. Puoi eliminare “Dio”, le religioni, e può anche essere un bene da un certo punto di vista, ma c’è qualcosa di irriducibile che non smetterà di interrogarci ed agire dentro di noi.

Questa interrogazione e azione è in parte attiva nei migliori dei nostri maestri “Caravaggeschi”: il prelievo oggettuale, i materiali e le presenze “live” sono assunte all’interno di una drammaturgia, di un recit, che li trasporta in un contesto linguistico e formale, in quel “terzo” livello che si pone oltre te e me, e ci parla come arte –  salto umano oltre la pura esistenza. Discorso simile si potrebbe fare anche per varie esperienze dell’arte astratta, da Malevic in poi, in cui il colore, la forma e la luce sono dei medium che spostano la mente verso quell’agognato “terzo” livello, chiamato dai suprematisti “quinta dimensione”. Ma dobbiamo avere l’onestà e il coraggio di riconoscere che entrambe queste riduzioni del terreno d’azione artistico, passaggi a suo tempo necessari ed estremi, lasciano irrisolto il problema della raffigurazione umana, della potenza insita nell’atto di modellare e generare dall’interno di noi l’immagine dell’uomo.

La potenza obliata e rimossa della pittura, del disegno e della scultura, risiede non tanto nella mimesis tout court, ma nell’identificazione ed empatia tra ciò che viene raffigurato e la persona che l’osserva o lo evoca: in questi casi l’immagine non è prelevata e rubata dall’esterno ma si autogenera in noi in un processo avvincente di apparizioni e cancellazioni, in un processo dove ciò che abbiamo tra le mani prende vita. Non si tratta di quel processo di composizione adottato da astrattisti e Caravaggeschi contemporanei, ma di un processo di generazione, che investe totalmente l’artista e la sua dimensione umana.

Il violino, se non c’è nessuno che lo suona, è un semplice oggetto. Tutto quello che accade quando l’archetto tocca le corde è un incredibile generazione umana. Lo stesso può dirsi del calco di un volto: quando nel 2002 ho iniziato a trasformare una serie di calchi identici del mio volto ho percepito chiaramente che non è il calco, la fotografia o la proposizione “live” di elementi esistenti, a dire fedelmente dell’uomo e della vita. E’ stato solo grazie all’intervento trasformativo dello scultore che l’uniforme statico funereo calco ha potuto riprendere vita, rianimarsi, scrollarsi di dosso la fissità cadaverica di una riproduzione meccanica del reale. E’ stato necessario quindi riattivare proprio quell’ancestrale e classico processo di rappresentazione, bistrattato dall’intellettualismo e ideologismo novecentesco che ha preferito andar per vie secondarie, vie che hanno sì ampliato il raggio d’espressione, ma hanno lasciato vuoto il centro che tutt’ora attende d’essere realmente abitato e nuovamente esplorato.

A.F. 2014

 

PS1: pubblicato la prima volta su De pictura n. 2, 9 giugno 2017.

PS2: Stampato e distribuito il 26 giugno 2021 in occasione in occasione della mostra “Le visage humain”, 19 marzo 2022. I nostri VOLANTINI,fino a quando non passerà l’emergenza, e il distanziamento sociale, saranno distribuiti “di mano in mano” a chi verrà a trovarci, e quindi non potrete trovarli, come tutto, specialmente ora, nei circuiti e piattaforme online.

PS 3: pubblicato online nel mese di maggio 2022

 

 

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